Come il Catania, in serie A, non c’è nessuno. Uniche sono due delle armi più utilizzate da Walter Zenga: lo studio e lo sfruttamento delle palle inattive, il turnover esasperato nella formazione titolare (e pure nell’assegnazione della fascia di capitano). Unico, per fortuna, è il vantaggio di cui gode quando gioca in casa: al Massimino i tifosi rossazzurri non stanno solo in tribuna ma affollano anche gli spogliatoi, il tunnel che porta sul terreno di gioco, il bordo-campo. Decine di persone. Addirittura centinaia, nelle partite che contano. Nella stragrande maggioranza gente non autorizzata. Un malcostume plurirecidivo che, con la colpevole tolleranza di arbitri, Lega e Federazione, negli ultimi anni ha causato incidenti e fruttato punti pesanti agli etnei. Domenica pomeriggio, nel dopo Catania-Roma, l’ennesima replica. Nulla in confronto a quanto accaduto lo scorso 18 maggio, prima, durante e dopo la stessa partita, episodio finale del campionato 2007/8. I siciliani si giocavano la serie A, i giallorossi lo scudetto. Tralasciando il lancio di oggetti fra i quali un martello (che colpì l’autista) contro il pullman della Roma diretto allo stadio e l’aggressione a tre giornalisti, sul campo successe di tutto. Falsi steward muniti di regolare pettorina, dietro la porta e attorno alle panchine, intimidivano e minacciavano i romanisti che per 55’ erano persino riusciti a sorpassare l’Inter e a «toccare» il tricolore. Poi, a Parma si scatenò Ibrahimovic, la Roma mollò, Martinez all’85’ segnò il gol-salvezza e tutto finì in gloria. Compresa l’inchiesta della Procura federale, che nulla aggiunse di concreto ai 15 mila euro di multa inflitti dal giudice sportivo per «petardi, fumogeni e la presenza di alcune decine di persone non autorizzate sul terreno di gioco». «Mai viste cose del genere – commentò Bruno Conti, uno che in carriera di campi caldi ne ha girati un bel po’ -. Non è normale, in serie A: in panchina c’era gente che mi passava davanti di continuo. Non so cosa sarebbe successo se fosse finita diversamente». Ieri, il bis. Sia pure con contorni ben più sfumati. Il Catania nega l’evidenza: «Le persone in campo? Noi siamo ligi alle regole», assicura con una buona dose di coraggio l’ad Lo Monaco. Anche sui forum dei tifosi si minimizza: «Quel 7-0 che ci rifilarono all’Olimpico brucia ancora. Certe cose capitano solo contro la Roma». Invece no. Vergogne del genere, nel far west senza leggi del Massimino, sono purtroppo diventate frequenti. Giusto un anno fa, ad esempio, ci fu l’aggressione prima di Catania-Samp dettagliata dal comunicato del giudice sportivo: «Una decina di persone, alcune delle quali con la pettorina gialla degli steward, insultavano, spingevano e strattonavano componenti del gruppo doriano che percorreva un sottopassaggio scarsamente illuminato». Roba grave. Nulla, però, al confronto di quel che avvenne il 28 maggio 2006 nell’ultimo turno della serie B, prima e durante Catania-AlbinoLeffe 2-1, sfida che consegnò la promozione diretta agli etnei e rimandò al playout i seriani. Presto in vantaggio, i padroni di casa vennero raggiunti al 41’. Non l’avessero mai fatto. «Nell’intervallo – rivelò Bonazzi, punta bergamasca – presi manate e calci nel tunnel non so nemmeno da chi. Dopo, non ci fu più storia: con tutta quella gente a minacciarci, nella ripresa il nostro unico pensiero fu quello di portare a casa la pelle». «Quel giorno me lo ricordo ancora come un incubo – dice Riccardo Colombo, ex AlbinoLeffe oggi al Toro -. La cagnara notturna sotto il nostro hotel, il pullman scortato come se fossimo in Afghanistan, l’agguato a Mondonico appena dentro il Massimino. E, fra spogliatoi e campo, centinaia di persone poco amichevoli, poco raccomandabili. Con noi c’era anche un agente della Digos munito di telecamera: chissà perché, allo stadio sparì subito. Avevamo paura di giocare: una tristezza infinita». Cose che, purtroppo, accadono con intollerabile frequenza nelle serie minori, alla periferia del grande calcio. Cose che, sotto i riflettori della serie A, con il controllo delle tv, degli ispettori di Lega e degli uomini della Procura federale, dovrebbero essere persino impensabili. Non è così, a Catania. In uno stadio che, fino alla tragedia Raciti, aveva come custode il magazziniere dell’arsenale degli ultrà. Gode di una sorta di extraterritorialità, evidentemente, il Massimino. Episodi e denunce che si ripetono, inchieste che esplodono come bolle di sapone, multe ridicole come massima punizione. E i dirigenti etnei che continuano a far finta di niente. «Qui è tutto l’ambiente che non mi piace», ha detto domenica Perrotta dopo l’ultima gazzarra. Lo pensano in tanti, ma nel calcio che conta nessuno si muove per risolvere il problema. Basterebbe solo fare rispettare le norme. Ne guadagnerebbe anche il Catania-squadra, bella realtà che merita ben altro contorno.
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